Festival “Pensare serve ancora?”
Associazione culturale Pensiamo Insieme
Cecina (LI), Casale Marittimo (PI), Guardistallo (PI), Montescudaio (PI) 19, 20, 21, 22, 23 luglio 2017 - terza edizione


La mente pieghevole. Ambiguità: ragioni e s/ragioni
Laboratorio di filosofia e psicoanalisi
MARCO FRANCESCONI e ELENA GIORZA
Guardistallo – Sabato 22 luglio


Il laboratorio ha tentato di leggere, coinvolgendo i partecipanti del piccolo gruppo di iscritti (1), il tema del Festival “Pensare serve ancora” 2017, La mente pieghevole. Ambiguità: ragioni e s/ragioni, facendo dialogare in un confronto interdisciplinare due prospettive, quella filosofica e quella psicoanalitica.
Alla base di questo tentativo vi è la convinzione che, in un mondo stratificato e multiforme come il nostro, divenga una richiesta impellente la capacità di servirsi parallelamente di sguardi differenti per dare risposte efficaci ai problemi che si hanno di fronte. Convinzione che è propria dello spirito stesso del Festival, nato dal desiderio di costituire un momento di comparazione dialettica tra punti di vista diversi, facendone emergere analogie e differenze.


Tra complessità e iperspecializzazione
Il primo aspetto messo in luce è quello legato alle “sfide” poste dalla contemporaneità. Dal momento che la mente pieghevole, protagonista della terza edizione del Festival, sembra essere quell’intelligenza elastica e flessibile, capace di risolvere con successo i problemi di una realtà ondeggiante e inafferrabile, ma anche in grado di evocare una eccessiva malleabilità con le relative ombre, occorre chiarire quali siano questi elementi di problematicità.
Innanzitutto la riflessione si è soffermata sulla questione della complessità, a partire dalle considerazioni proposte da Edgar Morin ne La testa ben fatta. Riforma dell'insegnamento e riforma del pensiero, e in contrapposizione con il concetto di iperspecializzazione, imperativo dominante della modernità a tutti i livelli e in tutti i settori, teorici e professionali. Vi è un’esigenza impellente, in linea con i nostri tempi, di possedere un sapere che non richieda una acquisizione di competenze e che consideri sufficienti le conoscenze già possedute o fornite prêt-à-porter da un sistema informativo/informatico sempre up-to-date. Il gruppo ha discusso, ad esempio, sul problema della iperspecializzazione in ambito sanitario e sulla diffusione delle così dette “linee guida”, ovvero un sistema codificato, piuttosto vincolante, che fornisce istruzioni precise e ritenute ottimali per impostare trattamenti. Questo implica che specialmente i soggetti in formazione di un determinato settore, potendo e dovendo fruire di queste rigide indicazioni basate sul “saper fare” qualcosa nel modo apparentemente migliore possibile, entrino in possesso in tempi brevi e immediati di ricette pronte per l’uso che si trovano quasi obbligati ad applicare. Se consideriamo la crescente settorializzazione delle varie discipline, da un lato abbiamo un’innegabile evoluzione della capacità tecnica, dall’altro possono aver luogo ricadute negative rispetto all’utilizzo coordinato dei servizi e delle possibilità di dare la stessa attenzione terapeutica a patologie e bisogni non immediatamente pertinenti alle competenze della specializzazione, sottovalutando gli aspetti collegati a malattie che sono sempre più multifattoriali, multicentriche, polimorfe e ricche di intrecci e connessioni. Ci chiediamo se tale meccanismo, infarcito di fantasie inconsce modellate sull’intervento mirato


(1) Hanno partecipato: Bernardino Branca, Andrea Ciandri, Liliana Molesti, Pia Pagani, Marco Ricci, Veronica Russo, Andrea Sargeant Branca, Franco Taviani, Lucia Valori, (inoltre, ma con consenso alla pubblicazione nome non pervenuto: O.A., P.P.). A tutti loro va il nostro ringraziamento.



chiara metafora militare, che colpisce il bersaglio più che includere l’oggetto e i suoi bisogni in un alone di comprensione – non provochi, di rimbalzo, un’eccessiva propensione verso medicine “olistiche” a volte utili, ma spesso assai approssimative o fuorvianti. Va considerato anche che, grazie alle linee guida, i giovani medici si sentono rassicurati dal punto di vista operativo e competenti quanto i medici con più esperienza: grazie all’adesione alle regole indicate, infatti, vengono meno timori e insicurezze, ma anche la capacità di adattarsi alle diverse situazioni attraverso uno spirito critico e riflessivo. Uno studio “con la trivella”, ovvero basato sull’idea di scavare in profondità in un ambito specifico attraverso un approccio rigidamente delimitato, potenzia un singolo punto d’azione, ma può minacciare l’efficacia complessiva delle cure, aumentandone allo stesso tempo i costi.
Qualcosa di analogo si verifica nell’ambito universitario in cui la selezione di chi è destinato a fare carriera si basa sempre più su un criterio specialistico e settoriale: ad avere valore è esclusivamente lo studio, la ricerca e la pubblicazione all’interno di un settore estremamente specifico, spesso non connesso ad altri campi. In questo modo, privilegiando un approccio quantitativo e ristretto di approfondimento e moltiplicazione degli studi, non solo si perde la possibilità di svolgere un lavoro interdisciplinare, caratterizzato dall’integrazione di diversi ambiti del sapere, ma si osteggia la costruzione stessa dell’intelligentia, concetto che richiama l’idea di un assetto mentale in grado di legare le cose tra loro, stabilendo delle connessioni e degli scambi arricchenti.
In linea con Morin, l’iperspecializzazione (2) sembra essere una delle principali cause della deresponsabilizzazione degli individui in quanto cittadini: la compartimentazione del sapere e del reale, e la conseguente assunzione di una prospettiva riduzionista, instillerebbe negli uomini la credenza che, svolte le attività legate al proprio specifico ruolo professionale, essi sarebbero esonerati da tutti quei doveri politici e sociali che competerebbero loro in quanto cittadini. In tal senso l’idea che prendersi cura del proprio “orticello” sia sufficiente per ritenere di aver esplicato compiutamente la propria intera esistenza trova legittimazione nella rigida divisione delle conoscenze e ne è diretta conseguenza.
La deresponsabilizzazione, inoltre, rappresenterebbe un sottofondo anche a livello inconscio e, di conseguenza, costituirebbe non solo un obbligo esterno, ma anche un vincolo interno: ci si sente molto più padroni della situazione e, perciò, rassicurati, quando il settore in cui siamo chiamati a muoverci è estremamente ristretto, determinato, esente da confronti e legami dall’esito incerto. Si ha a che fare con la costituzione di un “neofeudalesimo psichico”, basato su un’esigenza difensiva e di autosufficienza che ci porta a ripristinare e a creare una serie di strutture, di isolotti delimitati, in risposta e in opposizione alla globalizzazione. Tuttavia, si tratta di una fantasia limitata dal punto di vista della sua possibilità di efficacia e di funzionalità, dal momento che la pretesa di poter governare perfettamente un territorio è un’idea messa in crisi a partire da Freud e nella psicoanalisi per cui lo stesso Io, il soggetto, non sarebbe padrone in casa propria, a causa della presenza dell’inconscio. Mettere in dubbio il modello freudiano e ripristinare l’illusoria sicurezza di poter avere un controllo totale in un certo ambito implica limitare la dimensione del campo, che diviene necessariamente assai ristretto e chiuso.
L’iperspecializzazione, quindi, risulta essere una risposta insufficiente in rapporto al carattere globale e multidimensionale del mondo. La complessità del reale, infatti, ha, a sua volta, un aspetto


(2) Cfr. E. GIORZA, Iperspecializzazione e deresponsabilizzazione: le sfide della contemporaneità, in MicroMega on line, Rileggiamoli insieme, 24 marzo 2017: http://temi.repubblica.it/micromega-online/iperspecializzazione-e-deresponsabilizzazione-le-sfide-della-complessita/ (ultima consultazione 22 agosto 2017).



stratificato e irriducibile e si sviluppa lungo più direzioni. In primo luogo, implica un confronto dell’individuo con l’espansione incontrollata di informazioni, spesso non verificate e non verificabili, che si moltiplicano rapidamente, rendendoci incapaci di compiere sintesi e di formarci uno sguardo d’insieme. Sulla base di questa constatazione alcuni ritengono che le innovazioni tecnologiche e i nuovi mezzi di comunicazione, nonostante gli evidenti risvolti positivi, stiano conducendo sempre più verso una società dell’ignoranza e non della conoscenza, causando una proliferazione dei così detti “analfabeti funzionali”. Questo è dovuto anche al fatto che ogni mezzo ha proprietà specifiche in quanto strumento di accesso al sapere. Per esempio la sostituzione dei libri cartacei con supporti digitali tende a ridurre le capacità mnemoniche; la televisione e il web, inclini a intrattenere in modo passivo nonostante i proclami di inter-attività (cfr. vari scritti di Byung-Chul Han, editi in trad. in Nottetempo), hanno difficoltà nel sostenere argomentazioni razionali e quindi nel diffondere conoscenza e spirito critico autonomo, tendendo piuttosto a illudere le persone che ne usufruiscono di essere soggetti attivi e produttivi. Si crea un paradosso: un numero maggiore di informazioni non si trasformano in conoscenza, accumulandosi sterilmente e acriticamente. In questo ambito alcuni propongono di servirsi dell’ignoranza in termini di risorsa: data l’impossibilità di organizzare le troppe informazioni, risulterebbe più conveniente agire sulla base di ciò che non si sa, piuttosto che di ciò che si sa, ma questa “politica” espone, ovviamente, a forti rischi di ribaltare i valori a favore del non-sapere, che non ha nulla di socratico!
D’altra parte l’analfabetismo funzionale è strettamente correlato a un invito pervasivo a incoraggiare e valorizzare l’esperienza pratica, per esempio all’interno della medicina e di molte discipline scientifiche. Sebbene sia vero che la pratica abbia una funzione ineliminabile e costituisca un elemento utile per diminuire il numero di analfabeti funzionali, occorre prestare attenzione a non restringere la conoscenza e l’insegnamento a una dimensione puramente ed esclusivamente pratica, poiché questo implicherebbe autogiustificare e autoconvalidare il sistema dell’efficienza basato semplicemente sull’esperienza e incapace di uno sguardo sintetico. Quest’ultimo potrebbe essere stimolato, invece, dall’idea di convivere con la frustrazione del non sapere (perché da me non conosciuto, oppure inconoscibile, oppure inconscio) senza rinunciare al tentativo di porvi rimedio e di colmarlo, pur sapendo che ciò sarà sempre impossibile: soluzione assai differente dalla teorizzazione di una logica dell’ignoranza che basta a se stessa.
In questo contesto, l’idea di Morin è che per educare alla complessità si debba partire da una riforma paradigmatica – non programmatica – delle istituzioni pedagogiche e del pensiero, che prenda avvio dall’integrazione e dal superamento del rigido dualismo che vede contrapposte cultura umanistica e cultura scientifica: queste ultime, se assunte separatamente e in modo isolato, si rivelerebbero inadatte alla multidimensionalità della realtà (3). A partire dalla convenzione di montaigneana memoria che sia meglio una testa “ben fatta” piuttosto che una testa “ben piena”, si dovrebbe privilegiare l’organizzazione delle conoscenze e il criterio qualitativo, piuttosto che quello quantitativo: educare alla complessità non è educare a un sapere generico, ma evitare una degenerazione della specializzazione, che di per sé va conservata. Obiettivo è la realizzazione di una “democrazia cognitiva” che si opponga ai tentativi di frazionamento, riduzione e compartimentazione del sapere: l’incapacità di assumere un punto di vista globale, infatti, implicherebbe l’affievolirsi della solidarietà e dell’empatia al di fuori del proprio limitato gruppo di riferimento, portando a un vero e proprio «deficit democratico crescente dovuto all’appropriazione da parte degli esperti, degli specialisti, dei tecnici, di un numero crescente di problemi vitali. Il


(3) A questo proposito Gianni Rodari afferma: «Se una società basata sul mito della produttività ha bisogno di uomini a metà – fedeli esecutori, diligenti riproduttori, docili strumenti senza volontà – vuol dire che è fatta male e che bisogna cambiarla». G. RODARI, Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, Einaudi, Torino 1973, p. 171.



sapere è divenuto sempre più esoterico (accessibile solo agli specialisti) e anonimo (quantitativo e formalizzato)» (4) . Nella riflessione di Morin, la complessità finisce per assumere un duplice ruolo: essa è allo stesso tempo il problema con il quale si è tenuti a confrontarsi e la soluzione, dal momento che “solo il simile può agire in modo efficace sul simile” e, quindi, solo una prospettiva non riduzionista e non astrattiva può rispondere adeguatamente alla natura intrinsecamente composita della modernità. Questa concezione della complessità intesa contemporaneamente come problema e soluzione emerge chiaramente in due immagini proposte da Italo Calvino, il labirinto e il carciofo. In Perché leggere i classici, parlando dell’opera letteraria di Gadda, a cui Calvino è molto legato, afferma: «La realtà del mondo si presenta ai nostri occhi multipla, spinosa, a strati fittamente sovrapposti. Come un carciofo. Ciò che conta per noi nell’opera letteraria è la possibilità di continuare a sfogliarla come un carciofo infinito, scoprendo dimensioni di lettura sempre nuove» (5). E in Una pietra sopra, «resta fuori chi crede di poter vincere i labirinti sfuggendo alle loro difficoltà; ed è dunque una richiesta poco pertinente quella che si fa alla letteratura, dato un labirinto, di fornire essa stessa la chiave per uscirne. Quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. È la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto» (6).
Analogamente alle immagini del labirinto e del carciofo, nell’ambito della psicoanalisi, Wilfred Ruprecht Bion propone l’immagine della cipolla, simbolo della stratificazione. In tal senso un approccio riduzionista, di apparente risoluzione del molteplice, non solo non è sufficiente, ma rischia di non valorizzare, in termini di risorsa, la complessità come attributo essenziale e privilegiato del reale: la “piega”, che secondo Deleuze costituisce la forma del mondo delineato da Leibniz, va mantenuta in modo consapevole e antiriduzionista.
Va precisato che il concetto di “complesso” si distingue nettamente dal concetto di “complicato”: ciò che è complicato, ovvero composto da più elementi, può in definitiva essere ricondotto a una cosa semplice (l’esempio più banale è costituito dalle equazioni matematiche che, attraverso una serie di operazioni, possono essere ridotte a un determinato risultato, e quindi a un singolo elemento); il complesso, invece, è qualcosa che non può essere ridotto e che inevitabilmente obbliga a prendere in considerazione tutti i suoi singoli aspetti: la scelta di non nientificare, e quindi di conservare, una struttura complessa, implica l’accettazione della irriducibilità della sua molteplicità. Accettare la complessità significa divenire capaci di elaborare una sopportazione e una trasformazione in termini positivi di certe forme di angoscia provocate dall’impossibilità di ridurre tutto al semplice; significa assumere la consapevolezza che l’idea di togliere ed eliminare completamente l’ansia costituisca una pura fantasia. Una grande psicoanalista successiva a Freud, Melanie Klein, riteneva l’angoscia utile, se non addirittura indispensabile, come base dello stimolo alla ricerca di soluzioni: se non avessimo la condizione di angoscia, non cercheremmo di conoscere, esplorare il mondo e di trasformarlo in maniera simbolica. In tal senso la psicoanalisi ha, tra i suoi obiettivi principali, quello di ampliare la capacità di sopportare i momenti di difficoltà, di porre le basi per una “tolleranza alla frustrazione”, senza pensare di poter arrivare a eliminare del tutto il disagio.
Dall’altro lato, il riduzionismo, ovvero la convinzione che tutto possa essere riducibile, trova una chiara esemplificazione nel campo delle neuroscienze, in rapporto alla psiche. Infatti, attualmente vi


(4)  E. MORIN, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000 , p. 11.
(5) I. CALVINO, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano 1991, p. 244.
(6) ID., Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Einaudi, Torino 1980, p. 96.



è una forte tendenza ad affermare che tutti gli stati d’animo, le malattie, le difficoltà, le insufficienze siano dovute a carenze di strutture e funzioni cerebrali, localizzabili e considerate sul versante chimico-fisico. Sebbene non si possa negare il ruolo della struttura cerebrale, ridurre la mente esclusivamente al cervello, può avere conseguenze negative e pericolose.
L’idea di Morin è quella di insegnare a esercitare la curiosità e il dubbio, in particolare comprendendo con consapevolezza i limiti della nostra conoscenza, «senza nascondere l’assurdo ch’è nel mondo» (7), come avrebbe detto Danilo Dolci. Il desiderio di conoscere tutto in modo completo e definitivo, tanto più in una realtà in incessante movimento come la nostra (8), è destinato a rimanere inappagato e rischia di assumere carattere patologico: basti pensare che nella prospettiva dello psicoanalista Bion – secondo il quale la conservazione della complessità, della molteplicità di posizioni, del dubbio stesso dipende dalla possibilità del darsi di uno spazio “insaturo”, mai completamente pieno, caratterizzato da parti vuote. Le strutture “sature”, come onniscienza e onnipotenza, rappresentano delle vere e proprie espressioni della parte psicotica della mente, ovvero di quella parte che funziona in base a una struttura così arcaica da rivelarsi inadeguata al di fuori dell’età infantile e che deve necessariamente essere superata. In tal senso si deve riflettere sull’abuso che si fa dell’affermazione socratica del “so di non sapere nulla”. Socrate, infatti, in polemica con la retorica, non sostiene di non sapere niente, ma riconosce di sapere il nulla, un residuo di non sapere, di non conoscenza: questo elemento di consapevolezza rende il suo sapere più grande rispetto a quello dei retori. Attualmente il modello “insaturo” è stato completamente sostituito dalla proliferazione di processi di affermazione “piena”: ma le affermazioni dogmatiche, “piene”, oltre a non lasciare spazi per nuove idee, rischiano di essere immediatamente falsificate, dando luogo a un continuo meccanismo di ricorso e rimaneggiamento dei discorsi che implica un rimettere in discussione tutto incessantemente. Questo si verifica non attraverso la sostituzione di un modello a un altro in termini di reversibilità, ma per mezzo della negazione radicale della teoria di turno, compatta e “piena”, quindi da rigettare in toto quando mostra il proprio limite, senza possibilità di modificare solo parzialmente il paradigma.
L’irriducibilità delle incertezze e il dubitare, inteso come antidoto al dogmatismo insito nelle certezze e, in termini kantiani, come uscita dell’uomo dallo stato di minorità rispetto alla auctoritas, trova espressione nelle parole di Bobbio «di certezze – rivestite della fastosità del mito o edificate con la pietra dura del dogma – sono piene, rigurgitanti, le cronache della pseudo-cultura degli improvvisatori, dei dilettanti, dei propagandisti interessati. Cultura significa misura, ponderatezza, circospezione: valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze prima di decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda, in modo irrevocabile, una scelta perentoria e definitiva» (9).
Pensare deriva dal verbo latino che significa “pesare”, “reggere il peso”: si tratta di trovare un equilibrio, un giusto mezzo tra una totale adesione, una sottomissione passiva e ingenua e una posizione estremamente critica di rigetto che finisce per inibire l’azione. Gregory Bateson, in


(7)  D. DOLCI, Ciascuno cresce solo se sognato, in Il limone lunare. Poema per la radio dei poveri cristi, Laterza, Bari 1970. Dolci fa proprio un metodo pedagogico di tipo maieutico basato sull’idea che gli alunni non siano contenitori vuoti da riempire con verità date, ma individui pieni che occorre affiancare, fornendo loro i metodi e gli strumenti per “partorire” quelle verità che possiedono già dentro loro stessi.
(8) Il desiderio di mettere in luce, esprimere e cogliere l’incessante movimento del reale, è centrale già nei primi tentativi di raffigurazione del mondo: per esempio nelle grotte di Lascaux sono dipinti i cavalli che corrono e la mucca che salta. A questo proposito si vedano anche gli studi sul moto di Leonardo da Vinci, attraverso la lettura che ne dà Michel Jeanneret.
(9) N. BOBBIO, Invito al colloquio, in Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, p. 15.



ambito antropologico, esemplifica questo concetto attraverso l’immagine del termostato. Francesca Rigotti in Filosofia, richiama l’idea di “pensiero pendolare”, che fa propria la capacità di oscillare, come un pendolo che nel compiere il suo movimento finisce per determinare un cambiamento. Analoga attenzione è posta da Bion in Psicoanalisi con la sua idea di oscillazione dinamica come motore del pensiero (10). In tal senso, il “pieghevole” va recuperato come qualcosa che può rientrare nel pensiero, nella capacità di esplorare, e che non costituisce immediatamente né un totale adattamento, né un irrigidimento che implichi opposizione radicale. La “piega”, parola chiave di questo percorso, è la capacità di adattarsi alle curve e al percorso, in modo flessibile.
Occorre, però, domandarsi quanto questa duttilità, flessibilità, pieghevolezza sia correlata al concetto di ambiguità. L’ambiguità può essere interpretata come uno stimolo per cercare di operare inconsciamente una disambiguazione: noi siamo continuamente sollecitati da elementi ambigui che si rivelano estremamente utili. Si pensi all’arte: l’arte è ambiguità. La mente di fronte a un’opera d’arte tenta di esplorare e di differenziare tale oggetto ambiguo. Questa operazione inconscia non è né la coltivazione dell’ambiguità di per sé, né la soppressione dell’ambiguità, causa di turbamento e inquietudine, attraverso il collasso nell’azione o espressione di una violenza che Freud vede derivare da una intrinseca “pulsione di morte”. Si tratta, invece, di un’operazione di disambiguazione che passa attraverso la mente e che non comporta l’annientamento di ciò che disturba, ma il mantenimento di elementi diversi all’interno di una dimensione complessa, di convivenza fertile (il bianco e il nero non danno luogo solamente al grigio, ma anche alla scacchiera). In questo modo l’azione non viene eliminata, ma il pensiero, in linea con la prospettiva freudiana, diviene un preludio all’azione: un pensiero che procede all’infinito, infatti, assume una connotazione ossessiva e controproducente. Si può, allora, affermare che la nevrosi, intesa in senso largo, sia proprio la mancanza di tolleranza verso l’ambiguità e verso altri tipi di inquietudini in cui si dà una conflittualità tra aspetti diversi.


La costruzione dell’identità nella modernità “liquida”
Una delle altre principali “sfide” della contemporaneità che una mente pieghevole sembra capace di affrontare meglio di altre è il carattere “liquido” della modernità, elemento centrale nella riflessione di Zygmunt Bauman.
Si deve precisare che l’idea di liquidità e di dispersività è presente in noi fin dall’inizio: la memoria della diffusione, la dimensione della dispersione, è conservata dentro di noi (si pensi al linguaggio in cui si fa uso di espressioni del tipo “uscire di testa”). La mente, in linea con un modello psicoanalitico dei primordi, è originariamente una struttura puntiforme/puntinista: essa è caratterizzata da differenti punti sparsi che necessitano di trovare una forma di unione. Si tratta di un processo opposto a quello a cui viene naturale pensare quando immaginiamo gli inizi di qualcosa, inclusa la nostra nascita. In genere siamo portati a rappresentare un inizio come qualcosa di compatto che si espande, come i polmoni del neonato al primo pianto, o come nella teoria del big bang, ben esemplificata da Calvino nelle Cosmicomiche, in cui, inizialmente, si dà un tutto compatto e compresso destinato, solo successivamente, a esplodere. In realtà, almeno per quanto concerne la mente, accade esattamente l’opposto: originiamo come una nebulosa che si raccoglie su di sé e forma un Io-pianeta.
Il modello puntiforme, del non connesso, del non collegato è descritto già nella psicoanalisi di Josè Bleger che si è occupato di ambiguità, psicosi e strutture primordiali della mente: egli considera l’ambiguità come perdita di connessioni e come soluzione di un conflitto basata sulla negazione del conflitto stesso (il problema si risolve negando il problema stesso, attraverso la dispersione e la mancanza di relazioni tra i vari elementi). Bleger parla di “Io granulare”, ovvero di una struttura in cui ogni granello è un Io e ciascuno di noi finisce per essere un insieme di tanti


10 M. FRANCESCONI, Cogita, ergo sum. La doppia freccia come metodo relazionale in Bion, in Koinos, IV, 2, Luglio-Dicembre 2016, pp. 147-155.



pezzettini sparsi, privi di connessioni e collegamenti. Inizialmente la mente è composta da molteplici puntini scollegati: se un mancato sviluppo ci ferma a questo stato, senza permetterci di unire gli elementi separati, perdiamo la possibilità di connessione e permaniamo nella dispersione.
Secondo Bauman il mondo che abbiamo di fronte – volatile, evasivo, imprevedibile – richiama da vicino le opere di Escher in cui si dà l’impossibilità di determinare in modo definitivo i riferimenti spazio-temporali, e quindi di individuare degli elementi-guida.
Può risultare utile riflettere sul tema della modernità liquida in rapporto al problema dell’identità, con l’obiettivo di arrivare a mostrare come una mente pieghevole implichi la costruzione di un’identità forte e, proprio perché solida e forte, capace di flessibilità. Il concetto di identità è attualmente oggetto di accesi dibattiti, ma alcune delle risposte che si è tentato di dare a questo problema hanno già rivelato tutti i loro limiti e la loro inadeguatezza (11). Si pensi al modello statunitense, basato sull’idea che la costruzione identitaria sia compito dei singoli individui e da relegare alla sfera privata: lo Stato in questo caso è completamente neutrale e indifferente. Questo comporta che i cittadini, incapaci di gestire l’ansia provocata dalla responsabilità di dover provvedere da soli a determinare la propria essenza per poi sottoporla al giudizio della comunità, tendano a individuare dei nemici pubblici comuni come capri espiatori.
Ma si pensi anche alla convinzione che sia necessario sacrificare le identità particolari, privilegiando l’uniformità in nome dell’unità a livello nazionale, o sovranazionale: il tentativo di inglobare artificiosamente all’interno di un’unica struttura identitaria individui o gruppi, senza tenere conto della diversa dimensione storica, cultura, sociale e politica in cui si collocano, può comportare esiti drammatici e essere alla base di fenomeni di intolleranza.
Infine, si pensi alla prospettiva, tipica dei nostri giorni, che giudica negativamente l’assunzione di identità personali solide, coesive, che permangano per un tempo prolungato, in quanto limitanti in rapporto alla libertà e, quindi, rischiose, sconvenienti, guardate con sospetto e destinate all’insuccesso. Bauman, a questo proposito, afferma: «Un’identità coesiva, saldamente inchiodata e solidamente costruita, sarebbe un fardello, un vincolo, una limitazione alla libertà di scegliere. Presagirebbe l’impossibilità di aprire la porta quando un’altra opportunità busserà. Per farla breve, sarebbe una ricetta per l’inflessibilità, per una condizione, cioè, che è continuamente biasimata, ridicolizzata o condannata da quasi tutte le vere o presunte autorità dei nostri giorni (mezzi di comunicazione, esperti di problemi umani e leader politici)» (12). Quelli che Sartre chiama “progetti di vita”, legati a un impegno costante e continuativo, vengono rifiutati, in quanto si ritiene che minaccino la libertà, intesa come possibilità di avere tutto e subito e non come capacità di scegliere tra opportunità diverse.
Bauman ribadisce ripetutamente l’analogia tra il rifiuto di un’identità unica e l’incapacità, cui assistiamo, di impegnarci in relazioni d’amore alla pari e che richiedano un impegno costante. L’autore richiama la storia di Peer Gynt, protagonista dell’opera teatrale di Henrik Ibsen: Peer è ossessionato dall’esigenza di trovare la sua vera identità, ma allo stesso tempo è impaurito dall’idea di assumere un’identità coesiva, che lo renda meno libero. Dopo aver vagato in giro per il mondo in cerca del suo vero io, ritorna a casa, dove ad aspettarlo c’è Solvejg, l’amore della sua giovinezza, rimastagli fedele sempre e simbolo, quindi, di un’identità solida. Solvejg, alla domanda circa dove si trovasse il vero io di Peer, risponde «Nella mia fede, nella mia speranza e nel mio amore» (13).


(11) Cfr. E. GIORZA, Il problema dell’identità: dalla figura del Don Giovanni all’individuo penisola, in MicroMega on line, Rileggiamoli insieme, 24 giugno 2017: http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-problema-dell%E2%80%99identita-dalla-figura-del-don-giovanni-all%E2%80%99individuo-penisola/ (ultima consultazione 22 agosto 2017).
(12) Z. BAUMAN, Intervista sull’identità, Editori Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 62-63.
(13) Ibid., p. 89.



Appare evidente come la contemporaneità, con le sue sfide legate alla globalizzazione e al multiculturalismo, richieda un impegno, non solo da parte dei singoli cittadini, ma anche dei loro Stati, rispetto alla costruzione identitaria. Se il progetto kantiano di una universale unificazione dell’umanità risulta un obiettivo lontano e non raggiungibile a breve termine, si comprende l’urgenza di individuare un’alternativa efficace e attuabile qui e ora. Una proposta potrebbe essere quella di assumere l’impegno di formare individui con identità forti, dotati di una mente flessibile. Essi, lungi dall’essere chiusi e rigidi, sarebbero capaci di confrontarsi in termini non competitivi con identità altre, senza sentirsene minacciati. Tale modello identitario forte, inoltre, potrebbe permettere di superare il concetto di tolleranza, inteso oggi come dimensione ideale nella quale deve avvenire il confronto tra profili personali diversi. Infatti, la tolleranza sembra non rappresentare più una risposta sufficiente in un mondo caratterizzato dalla convivenza tra culture diverse: da una parte, essa implica un rapporto di diseguaglianza (chi è tollerato ha una posizione di inferiorità), dall’altra, presuppone un approccio di tipo paternalistico (chi tollera esercita un potere su chi è tollerato che, a sua volta, ammette di essere in una condizione di debolezza). Risulta necessario andare oltre la tolleranza e un modo per farlo sarebbe quello di educare gli individui ad assumere identità solide, aperte al dialogo e al confronto con la diversità, non percepita come minaccia. Educare a diventare, riprendendo le parole di Amos Oz, “individui penisole”, «per metà attaccate alla terraferma e per metà di fronte all’oceano, per metà legati alla famiglia e agli amici e alla cultura e alla tradizione e al paese e alla nazione e al sesso e alla lingua e a molte altre cose. Mentre l’altra metà chiede di essere lasciata sola, di fronte all’oceano. Credo ci si debba lasciare il diritto di restare penisole. Ogni sistema sociale e politico che trasforma noi in un’isola darwiniana e il resto del mondo in un nemico o un rivale, è un mostro. Ma al tempo stesso ogni sistema sociale, politico e ideologico che ambisce a fare di ognuno di noi null’altro che una molecola di terraferma, non è meno aberrante. La condizione di penisola è quella congeniale al genere umano. È quello che siamo e che meritiamo di restare» (14).
Prima di chiarire cosa si intenda con “identità forti”, è utile specificare cosa siano le identità deboli e perché risultino insufficienti all’interno di un mondo alla Escher. Bauman ritiene che si sia sempre più in presenza di una proliferazione di individui Don Giovanni, volubili, che fanno propria la strategia del carpe diem, del “qui e ora”, del “tutto e subito”: si tratta di profili provvisori, incompleti, fragili e precari. In Kierkegaard, il Don Giovanni di Mozart, rappresentante dello stadio estetico, è colui che conduce una vita esclusivamente dedita al piacere continuamente rinnovato, priva di scelte (sceglie di non scegliere) e destinata a ricadere nella noia, nella indifferenza e, infine, nella disperazione per il vuoto della propria esistenza.
Nella prospettiva di Bauman l’identità del Don Giovanni è un’identità-puzzle, la cui costruzione però risulta molto più complessa rispetto al gioco di pazienza: essa «può essere paragonata solamente a un puzzle difettoso, in cui mancano alcuni pezzi (e non si può mai sapere esattamente quanti). Un puzzle comprato in un negozio è tutto contenuto in una scatola, ha l’immagine finale già chiaramente stampata sul coperchio e la garanzia, con promessa di rimborso in caso contrario, che tutti i pezzi necessari per riprodurre quell’immagine si trovano all’interno della scatola e che con questi pezzi si può formare quell’immagine e quella soltanto: ciò permette di consultare l’immagine riprodotta sul coperchio dopo ogni mossa per assicurarsi di essere effettivamente sulla strada giusta (l’unica strada corretta) verso la destinazione già nota, e quanto lavoro rimane da fare per raggiungerla» (15).
Inoltre, bisogna tener conto del fatto che le identità provvisorie – Bauman le chiama “identità-guardaroba”, ovvero di breve durata e che prevedono un impegno scarso –, implicando un’esigenza di riconfigurazione costante, trovano uno strumento utile in Internet e rispondono perfettamente alla


(14) A. OZ, Contro il fanatismo, Feltrinelli, Milano 2010, p. 54.
(15) Ibid., pp. 55-56.



logica consumistica, usa e getta, delle carte di credito e della soddisfazione immediata, non posticipabile. Tali identità volubili, non solo non riescono a soddisfare, se non illusoriamente e per periodi brevi, il bisogno di sicurezza, appartenenza e socialità e a porre un freno all’angoscia generata dal timore della solitudine e dell’abbandono – elementi che sono le principali cause del desiderio identitario –, ma dipendono strettamente da fattori economici. Infatti, la quantità e la qualità delle identità provvisorie tra le quali è possibile scegliere, sono direttamente proporzionali alla disponibilità economica di ciascun individuo: ciò provoca l’insorgere di disuguaglianze e divisioni.
Proprio per questo motivo, secondo Bauman, non ci si può stupire di fronte all’ascesa dei fondamentalismi: persone con identità deboli, il cui bisogno di appartenenza rimane inappagato dai quadri di riferimento tradizionali, con possibilità economiche limitate o in una condizione di emarginazione sociale, con una quantità esigua di identità provvisorie tra le quali scegliere, finiranno per rivolgersi a gruppi che promettono “il sentimento del noi” a costo zero, o magari dietro compenso. I fondamentalismi, però, oltre a implicare la negazione delle identità personali dei propri membri e la loro libertà di scelta (in nome dell’unità e dell’uniformità a un’unica verità) costituiscono un modello identitario altrettanto debole e, di conseguenza, inevitabilmente chiuso e intollerante. La loro sussistenza dipende necessariamente dall’eliminazione di ogni possibilità di apertura e confronto con realtà diverse, dall’assunzione di una prospettiva dogmatica, acritica e basata sul ricorso alla violenza e alla forza nei confronti di tutto ciò che può minacciare o costituire un’alternativa.
Sembra opportuno fare una precisazione circa la natura stessa del concetto di identità, concetto che è andato sviluppandosi all’interno della riflessione psicoanalitica. Per esempio, il filosofo e psichiatra tedesco Karl Jaspers sottolinea che il concetto di identità nasce e si fonda in primo luogo sul concetto di persistenza nel tempo e non sull’idea di “fotografia” del soggetto. Abitualmente e attualmente, il termine “identità” richiama questioni in cui l’aspetto temporale, “longitudinale”, sembra venir meno (per esempio le false identità grazie ai nuovi sistemi tecnologici e ai social network). Raramente si riflette sul fatto che l’identità nasce originariamente soprattutto come autoriconoscimento in una successione cronologica di sé che cambiano parzialmente. Il concetto di identità sembra uscito dal tempo: paradossalmente si è spostato verso una configurazione fotografica di quello che il soggetto è in un dato momento o una sorta di equilibrio tra le parti interne del sé. Nell’ambito della psicoanalisi il tempo, d’altra parte, è un concetto fondamentale: per esempio per Bion una tematica centrale è il tentativo di elaborare l’idea di angoscia in rapporto all’identità nel tempo. Secondo Bion possiamo investire positivamente ogni forma di discontinuità (anche andare a dormire questa sera dando per certo di svegliarci domattina…) attraverso non una certezza “scientifica” (che nessuno può darci) ma compiendo un “atto di fede”. Bion estende questa procedura alla stessa Scienza: non si procede per conoscenza certa, ma per fede. In questo contesto il termine “fede” non ha a che fare con il religioso, ma indica una fiducia in qualcosa di cui non si può essere sicuri e che, in linea teorica, è solo ipotetica.
In fondo, non è del tutto vera, portando Bion a segnalare che questa inevitabile falsificazione (come nell’espressione: il sorgere del sole) è qualcosa con cui conviviamo necessariamente, ma è cosa ben diversa da una intenzionale Bugia radicale, deformante la verità e velenosa per la crescita mentale. A parere di Bion, la psicopatologia si fonda, in gran parte, proprio sull’incapacità inconscia di molti di noi di comprendere (fin da piccoli e, in particolare, grazie al ruolo complessivo della mente materna e non esclusivamente attraverso lo sguardo, elemento troppo valorizzato nella nostra cultura, ad esempio da autori come Donald Winnicott) e attuare questo meccanismo probabilistico, superando il timore e il rischio implicito nell’atto di fede e accettando l’impossibilità di possedere una certezza da un punto di vista logico in molti ambiti quotidiani della vita. Chi fallisce nel far proprio questo sistema, basato sulla capacità di confrontarsi con una dimensione di dubbio, con una falsificazione parziale, con un’approssimazione al vero, con il “falso obbligatorio”,



finisce per non acquisire sufficiente sicurezza sul piano della riconferma identitaria nel tempo e vive in una condizione di panico o trova rassicuranti forme di pensiero ideologicamente “forti”, ma di una natura forte ben diversa da quanto detto poc’anzi.
Inoltre occorre fare un’ulteriore precisazione. Spesso parando di identità si fa riferimento al tema della narrazione di sé. In psicoanalisi c’è una corrente di pensiero narratologico che attribuisce un’importanza centrale al tema della narrazione. Sebbene la narrazione abbia una funzione essenziale nell’ambito psicoanalitico, questa prospettiva, tuttavia, tende a identificare il racconto con la dimensione del linguaggio e della parola, tralasciando tutto ciò che si costituisce come mentale ma non necessariamente riconducibile allo strumento linguistico, come le fantasie inconsce. Invece, se si recupera l’accezione mitopoietica del racconto (mythos significa “racconto”), si comprende che la narrazione può avvenire in varie modalità, non esclusivamente linguistiche. In tal senso il racconto non è una storia: esso è una serie di immagini, di figure della mente non sempre consapevoli, ma talvolta inconsci (un sogno può essere un racconto anche se non lo ricordo e se non sono in grado di trasformalo in pensiero e poi verbalizzarlo).
Bisogna, quindi, evitare che il pensiero narrativo prenda una deriva strettamente linguistica. Per esempio, le influenze interpersonali, da mente a mente, non passano sempre attraverso il racconto: esiste un modello teorico di passaggio comunicativo non narratologico chiamato “identificazione proiettiva”, per cui si trasferiscono in un’altra persona le emozioni e i pensieri non pensati senza ricorrere alla narrazione. Tale processo può talvolta assumere una connotazione patologica (nei termini di influenzamento inconscio della mente dell’altro), ma è anche una risorsa rispetto alla capacità empatica interpersonale.
Per concludere, appare necessario divenire capaci di costruire non solo una struttura nucleare del sé (un sé nucleare costante), ma anche un sé orbitale o periferico (16) (una struttura diffusiva che permette di stabilire connessioni, legami e scambi comunicativi). Se si possiede una struttura nucleare solida e coerente, si possono stabilire e mantenere legami senza sentirsi minacciati nella propria identità. Se, invece, il nucleo è disperso o decentrato, subentra il timore di perdere il proprio sé o, all’opposto, si corre il rischio di cadere in meccanismi negativi di identificazione proiettiva, fino ad arrivare a uno stato di confusione e disordine in cui non si dà più la distinzione tra sé nucleare e sé orbitale. In questo secondo caso, si finisce per tornare a quella condizione originaria puntiforme, gassosa, di diffusione che causa una frammentazione del sé (ognuna di queste strutture è un sé, come avviene negli individui affetti da autismo), non compatibile con un buon funzionamento della mente: ad esempio il soggetto autistico cerca di riconoscere un migliore confine di sé attraverso il dolore, la ripetizione ritmica e meccanica (stereotipie) o con esplosioni di rabbia e violenza, tutti finalizzati a compensare una carente percezione del sé.


La metis: flessibilità o furbizia disonesta?
Un ultimo tema che ha fornito spunti alla discussione collettiva e che ha mostrato ulteriori aspetti attraverso i quali l’idea di mente pieghevole può essere interpretata e compresa è quello, proprio del mondo greco antico, di metis, a cui è dedicato il testo di Detienne e Vernant (17), tradotto in italiano con il titolo Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia.
Nella mitologia, la dea Metis, figlia di Oceano e Teti e simbolo allo stesso tempo di prudenza e perfidia, è la prima sposa di Zeus. Quest’ultimo, avvertito da Gaia e Urano che Metis, dopo avergli


(16) Si tratta di un’ipotesi di Wisdom ripresa da Grinberg.
(17) Detienne e Vernant, filologi grecisti, nella loro riflessione si servono di molti racconti mitici la cui ricchezza risiede anche nella libertà interpretativa che consentono: i miti, come i sogni o i quadri, sono passibili di letture molteplici, diverse, ma compatibili.



dato una figlia, avrebbe partorito un figlio che lo avrebbe spodestato (come Zeus stesso aveva fatto con il padre Crono), la ingoia nel momento in cui lei è gravida di Atena (18). Al momento del parto, il re degli dei ordina a Efesto di calare un fendente sulla sua testa con un colpo d’ascia: dalla testa di Zeus esce una giovane in armi, Atena.
La metis è un tipo di intelligenza astuta e applicata, impegnata nella pratica, efficace. Combina accorta prudenza, intuito, sagacia, capacità di previsione e di trarsi d’impaccio, spigliatezza mentale, finzione, vigile attenzione, senso dell’opportunità, abilità ed esperienza (19). Essa rimane sempre sullo sfondo, in profondità: è immersa in una pratica che non si preoccupa mai, nell’utilizzarla, di verbalizzarne la natura e il modo di procedere. Costituisce quel tipo di pensiero che garantisce il successo nei più svariati campi di azione: caccia, pesca, arte militare, navigazione, medicina, politica, mestieri artigianali.
La metis ha un ruolo centrale nel mondo greco antico, ha la funzione di fil rouge, ma manca una sua teorizzazione e un suo riconoscimento esplicito. Ciò è dovuto al fatto che i filosofi greci considerano questo tipo di intelligenza distinta dall’autentica conoscenza e ritengono che essa debba essere ricondotta al livello della pratica e dell’opinione incostante (doxa). La filosofia greca, infatti, pone un netta dicotomia tra l’essere e il divenire, tra l’intelligibile e il sensibile, in quanto piani della realtà che si escludono a vicenda: in questo quadro, la metis, parte del regno del divenire e del molteplice, non può che essere guardata con sospetto. Di conseguenza, essa viene trattata con ironia e polemicamente, in modo da mettere in risalto, per contrasto, quella che si ritiene essere la vera conoscenza. In particolare, per Platone il pensiero scaltro dipende da una modalità di conoscenza esterno all’epistéme, al sapere, alla verità: egli, tuttavia, conserva della metis ciò che delle abilità pratiche artigianali può integrarsi a una conoscenza di tipo matematico. In Aristotele, la prudenza (phrònesis) conserva alcuni aspetti tipici della metis. D’altra parte, a rivalutare radicalmente questo tipo di intelligenza polimorfa sono i sofisti, abili nell’adattarsi all’avversario, nel rivolgere contro quest’ultimo i suoi stessi argomenti, nell’intrecciare e torcere i discorsi che divengono trappole, grazie agli artifici retorici basati sull’astuzia, sulla flessibilità e sul far apparire le cose allo stesso tempo simili e dissimili (20).
Per comprendere la natura della metis è utile porre l’attenzione sul XXIII Canto dell’Iliade di Omero, in cui compare l’episodio della corsa di carri. Protagonista è Antiloco, figlio del vecchio e saggio Nestore (esperto di metis). Gli avversari di Antiloco sono dati per favoriti, avendo cavalli più veloci, ma quest’ultimo, svantaggiato e dato per sconfitto, possiede la metis. Grazie a questa risorsa e ai consigli del padre, Antiloco approfitta di una brusca strettoia della pista per spingere il suo carro davanti a quello di Menelao, rischiando di provocare uno scontro. L’avversario è costretto a frenare i cavalli (cadendo nell’illusione del figlio di Nestore che vuole fargli credere che il gesto non sia calcolato, ma dovuto a inesperienza), lasciando la vittoria ad Antiloco.


(18) La minaccia del figlio che ucciderà il padre, e quindi l’angoscia di morte, è un topos dei miti greci (si pensi per esempio a Edipo). Si tratta di una battaglia contro il passaggio generazionale, contro il tempo.
(19) Il concetto di metis torna implicitamente anche in alcuni passi dei Ricordi di Guicciardini in cui si parla di “colpo d’occhio”, “occhio perspicace” e “discrezione”.
(20) Si pensi, per esempio, all’Encomio di Elena di Gorgia. Il sofista propone un gioco dialettico che ha come obiettivo scagionare Elena, moglie di Menelao, dall’accusa di aver provocato la guerra di Troia, mostrando come il movente del suo gesto sia esterno alla sua responsabilità (e dovuto al destino, all’eros, alla persuasione o alla forza fisica). Gorgia mette in luce la complessità del reale, il divenire del sapere e dimostra come un uso opportuno della forza della parola possa ribaltare il convincimento popolare a proprio piacimento: la parola cela il potere di ingannare ed è un “gran dominatore”.



L’episodio mette in luce tre caratteristiche fondamentali della metis. In primo luogo, l’opposizione tra l’uso della forza e il ricorso alla metis. In qualsiasi confronto, con un avversario o con un nemico, si può prevalere in due modi: grazie alla forza (per cui il più debole è destinato ad avere la peggio) o per mezzo della metis. Quest’ultima, a differenza della prima, garantisce però alla vittoria un carattere di stabilità e di universalità: Zeus, che ingoia Metis, è il re degli dei proprio perché è superiore in metis (riesce a prevedere ogni piano progettato contro di lui) e non soltanto in forza.
In secondo luogo, l’orizzonte temporale dell’intelligenza pieghevole. La metis si muove tra passato, presente e futuro. Passato, perché la scaltrezza è sempre il risultato di un’esperienza acquisita con gli anni: ha in sé tutta la “pesantezza” degli anni e dei pensieri, non è mai “leggera”, non è mai impulsività improvvisa. Presente, perché l’uomo dotato di sagacia, grazie alla sua vigile attenzione e al suo saper attendere pazientemente il momento opportuno, è in grado di cogliere al volo l’occasione, anche quando essa è rapida e improvvisa. Nel mondo greco ci sono due termini diversi per indicare il tempo: kronos, il tempo cronologico, sequenziale, quantitativo; kairos, il momento opportuno, a carattere qualitativo. La metis sa cogliere il kairos. Futuro, perché si tratta di possedere una capacità di previsione e progettazione, in termini di prudenza.
In terzo luogo, il carattere molteplice, polimorfo e stratificato della metis. Il campo di applicazione del pensiero dotato di metis è il mondo del mutevole, dell’ambiguo: essa appare ondeggiante e versatile perché si applica a realtà sfuggenti, mobili, sconcertanti, fluide, che contengono in sé aspetti contraddittori. Per cogliere l’occasione fugace, bisogna rivelarsi più rapidi di essa; per dominare una situazione cangiante, occorre divenire più duttili e più “pieghevoli” degli imprevisti insiti nel flusso del tempo. Solo il simile ha potere di azione sul simile: il successo su una realtà ondeggiante, non dominabile attraverso regole prestabilite o ricette date e resa quasi inafferrabile da continue metamorfosi, può essere ottenuto solo coltivando una maggiore mobilità, una più grande potenza di trasformazione. Il segreto della metis è la sua capacità di farsi complice dell’ambiguità del reale.
La metis, tuttavia, celando aspetti di ambiguità, di finzione e di inganno, corre costantemente il rischio di tramutarsi in furbizia disonesta: sembra allora che, accanto a un modello che attribuisce valore positivo a questo tipo di intelligenza, si dia un modello opposto, legato a considerazioni di carattere etico-morale. La metis, infatti, si serve di illusioni e travestimenti che mascherano la sua vera natura. La sua doppiezza, giocata tra apparenza e realtà, le consente di presentarsi diversa da quella che è, assumendo una connotazione menzognera: come un’esca da pesca, la metis dissimula, sotto apparenze rassicuranti e seducenti, tranelli micidiali.
Essa presenta innegabili risvolti negativi, in particolare quando non è sufficientemente educata e, quindi, “leggera” e impulsiva. Alla fine della corsa dei carri, Antiloco sebbene abbia trionfato grazie alla sua intelligenza scaltra, si rende conto di aver compiuto un gesto sleale, fraudolento e contrario alle regole del gioco e si trova costretto a porre delle scuse a Menelao. La sua metis di giovane uomo, manchevole di peso e consistenza, necessita ancora di addestramento. L’irriflessione e l’impulsività fanno sì che Antiloco si lasci trascinare dalle circostanze, senza valutare le conseguenze della sua azione e, quindi, venendo meno alla prudenza, alla pazienza e alla capacità di previsione e progettazione tipiche di una metis dotata di esperienza e in grado di vedere insieme passato e futuro.
La metis è un’intelligenza intuitiva, operativa e intrinsecamente “trasgressiva”. Ha in sé l’idea di rottura della regola, come dimensione prescelta, come elemento essenziale, non accidentale e accessorio. Per sconvolgere il gioco, per ribaltarlo a suo favore, non può far altro che uscire dal gioco stesso e dalle sue regole, sfruttando l’arguzia intellettuale. Ma in tal senso la metis si rivela analoga alla furbizia disonesta, finendo per trasformarsi da risorsa in espediente di affermazione della convinzione, contrassegno dei nostri tempi, che “il mondo è dei furbi”. Il concetto di metis trova chiara esemplificazione in due animali: il polpo e la volpe. Il polpo è una creatura multiforme



e ricca di astuzia: sa dissimulare, è astuto, vigile, ha membra flessibili, ondeggianti e innumerevoli. È capace di mimetizzarsi, assumendo il colore e la forma della roccia su cui si posa: in questo modo, con un unico artificio, si procura il cibo e si sottrae ai predatori. Inoltre, il polpo non solo è un animale notturno, ma, grazie alla sua capacità di produrre inchiostro, sa secernere la notte, divenendo imprendibile. Imprendibile proprio come Proteo, divinità marina che per sfuggire al compito spesso ingrato di vaticinare cambia forma in ogni momento (21).
La volpe, a sua volta, è comunemente ritenuta simbolo di furbizia. La sua tana è impenetrabile e polimorfa. Essa è dotata di potenza di capovolgimento, prudenza, pazienza, capacità di previsione e di adattamento alla circostanze, sagacia, scaltrezza. Grazie alla sua arte di simulare la morte, si rivela una trappola vivente: si pensi alle raffigurazioni del così detto “funerale della volpe” in cui la volpe, fingendosi morta, riesce a mangiare i due galli che le stanno facendo il funerale.
La metis è un tipo di intelligenza che utilizza delle vie laterali, un pensiero metamorfico, capace di trasformarsi in qualsiasi cosa (22). L’aspetto più evidente del processo trasformativo di metis e la sua principale caratteristica in quanto divinità consiste nella capacità di divenire qualsiasi cosa (onnipotenza): si tratta di un cambiamento radicale, in cui tutto è possibile, e che non lascia traccia. Per riuscire ad ingannare Metis e a ingoiarla, evitando il pericolo dello spodestamento, Zeus deve scendere sul suo stesso terreno e servirsi dei suoi stessi strumenti, ovvero l’inganno e la furbizia: fingendo di lodare le doti metamorfiche di Metis, Zeus la invita a trasformarsi in una goccia d’acqua e se la beve, incorporandola e appropriandosi delle sue qualità. Simbolicamente questo processo è interessante: il re degli dei fa propri gli strumenti della metis.
Il tema della metamorfosi torna, per esempio, in Kafka. Ne Le metamorfosi, l’autore, immaginando la trasformazione radicale del protagonista in uno scarafaggio che verrà alla fine eliminato con indifferenza, tenta di elaborare, attraverso la narrazione letteraria e in termini di illusione, il suo senso di fallimento e la sua angoscia di morte, sorta dall’aver scoperto un anno prima di essere malato di tubercolosi.
La metamorfosi, come afferma Bleger, rientra nell’ambito dell’illusorio. Noi ci illudiamo di compiere delle trasformazioni che però contengono sempre delle invarianti, ossia conservano degli elementi originari. Per Bion occorre distinguere tra catastrofe e cambiamento catastrofico: alla catastrofe si risponde inventandosi la metamorfosi (si tratta di un mito di onnipotenza: qualsiasi cosa accade posso rigenerarmi continuamente); il cambiamento catastrofico, invece, implica la capacità di riorganizzarsi (si tratta di un cambiamento quasi totale che conserva, però, dei punti saldi). Questa seconda funzione della mente è indispensabile per il progresso, perché presuppone la capacità di riconfigurarsi. Le strutture mentali incapaci di far fronte a un cambiamento catastrofico, si illudono di essere autosufficienti e onnipotenti, ma in realtà permangono costrette in una condizione di immobilismo e rigidità o corrono il rischio di frantumarsi irreparabilmente.
Come l’angoscia-malattia di Kafka diviene una “cosa” ripugnante ed espulsa dal contesto, ma una cosa che, nello stesso tempo, non è più cosa perché si fa scrittura e racconto, così solo lo sviluppo della capacità simbolica – o, meglio metaforopoietica – della mente può assicurarci un sufficiente antidoto alle soluzioni svantaggiose della malattia.
Una storia, questa, che sembra narrata dalla cosmologia esiodea, riletta da un punto di vista psicoanalitico; essa mostra il crescente sviluppo della nostra capacità simbolica e descrive, quindi,


(21) Pico della Mirandola, nel De hominis dignitate, descrive l’uomo proprio come un Proteo, di natura multiforme e cangiante, inquieta e mutevole, camaleontica.
(22) Lo psicoanalista José Bleger parla di “metamorfosi” proprio nei termini di un cambiamento totale in cui tutto è possibile. A questo proposito e per quello che si dirà in seguito, si veda M. FRANCESCONI e D. SCOTTO, Trasformazioni e metamorfosi. Scrittura e pensabilità tra Kafka e Freud, in M. BALSAMO (a cura di), Psiche e storia. Il caso clinico, la storia, il metodo, FrancoAngeli, Milano 2009.



una sorta di storia della mente. La narrazione inizia con l’idea di un mondo piatto. Urano, il cielo, è aderente alla struttura della Terra, Gaia: due corpi, il cielo e la terra, distesi uno sopra l’altro in un “eterno amplesso” che dà luogo alla generazione di creature, come i Titani. Tali divinità antropomorfe sono costrette, però, a permanere imprigionate nel ventre materno, a causa della mancanza di spazio.
Questo è un primo elemento di fantasia della mente che risulta interessante dal punto di vista psicoanalitico. Melanie Klein, ha trovato nell’immaginario infantile la fantasia che i bambini vengano tutti dal corpo della madre in cui da sempre sono contenuti: infiniti neonati potenziali “imprigionati” e pronti per essere partoriti. Inoltre, all’interno della storia mitologica, vi è l’episodio della castrazione di Urano da parte di Crono per mezzo di un falcetto. Urano, colpito, lanciando un urlo, si solleva dalla terra creando in questo modo la volta del cielo e di conseguenza uno spazio tridimensionale. La creazione dello spazio, perciò, si lega a un atto di ribellione e conflitto con il padre primordiale. Successivamente Crono, divorando i suoi figli mano a mano che nascono, li reinserisce dentro di sé, incorporandoli e riportandoli allo stato di prigionia precedente, a cui inizialmente li destinava la madre nell’immaginario antico. A un certo punto però Crono cade nell’inganno della moglie Rea che, sostituendo il figlio Zeus con una pietra avvolta da un lenzuolo, gli salva la vita: Zeus, nato dall’inganno, finisce per spodestare il padre. Si noti che in questo episodio è presente una dimensione proto-simbolica: divorando la pietra al posto del figlio vero, si sublima l’operazione distruttiva. Quando Zeus, poi, divora e include in sé Metis gravida, si appropria della funzione materna: sarà lui a partorire Atena. Dietro alla volontà di far propria la capacità di generare c’è certo un desiderio di onnipotenza, maschilista in particolare, ma anche un meccanismo di difesa che rovescia la condizione generativa rispetto al genere, come peraltro sembra fare anche il mito di Adamo in cui la donna nasce dalla costola dell’uomo. Possiamo tuttavia vedere – attraverso le sfumate linee dell’ambiguo rimescolarsi di positivo e negativo – in questo processo una catena trasformativa che consiste nell’interiorizzazione progressiva di funzioni e, quindi, di qualcosa che evolve dal concreto verso un tessuto figurativo incorporeo e immateriale. È il grande passo mostrato dal pensiero e dall’apprendere, la grande svolta del simbolico, quel “luogo mentale” che ci permette di (ap)prendere senza togliere ad altri, di dare senza perdere il nostro possesso. Ecco perché M. Klein valorizzava tanto la gratitudine (poco diffusa oggi…): dire grazie è la premessa per tenerci la cosa, è restituire una parola-simbolo al posto di un oggetto che ci è stato dato. Questo ci esonera dal senso persecutorio interno di una colpa connessa al vivere ogni possesso come una appropriazione furtiva di un bene altrui, che ci espone alla fantasia di un danneggiamento dell’altro, di una ritorsione possibile o ad un rovesciamento difensivo basato sulla credenza invidiosa di essere stati a nostra volta derubati e quindi di dover avere (così giustificandone il possesso) “indietro” quello che ci “spetta” secondo una “giustizia” tutta immaginaria.


 

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